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Lorenz Oken (Hrsg.): Isis

i letterati d’ un paese si vedono cader tutti e sovente nella repetizione delle stesse imagini, degli stessi concetti, de’ modi medesimi; segno è manifesto che le fantasie impoveriscono, le lettere isteriliscono: a rifornirle non ci è migliore compenso che tradurre da poeti d’ altre nazioni.

Nella quale opera, acciocch’ ella sia profittevole, guardiamoci dall’ usanza francese di tramutar sì le cose altrui che della origine loro niente si ravvisi. Colui che mutava in oro ogni cosa che toccasse, non trovò più cosa che lo nutrisse. Nè da quella perversa maniera di traduzioni caverebbe alimento il pensiero: nè apparirebbe novità nelle cose pur di lontano cercate; poichè si vedrebbe ognora la stessa faccia, con poca varietà di ornamenti. Ma questo error de’ Francesi ha molte scuse: l’ arte dei versi appo loro è piena di malagevolezze; rarità di rime; non diversità di metri; difficoltà d’ inversioni: il povero poeta è chiuso in giro si angusto, che di necessità egli dee ricadere se non sopra gli stessi pensieri, almeno sopra emistichj somiglianti; e la struttura de’ versi prende naturalmente una monotonia noiosa; dalla quale può bene talora liberarsi l’ ingegno quando più s’ alza ne’ suoi voli, ma non quando cammina per così dire sul piano, e passa d’ uno in altro argomento, e spiega il suo concetto, e raccogli le sue forze, e prepara i suoi colpi.

Sono perciò rare tra’ Francesi le buone traduzioni poetiche; eccetto le Georgiche volgarizzate dall’ abate De-Lille. I nostri traduttori imitan bene; tramutano in francese ciò che altronde pigliano, cosicchè nol sapresti discernere: ma non trovo opera di poesia che faccia riconoscere la sua origine; e serbi le sue sembianze forestiere: credo anzi che tale opera non possa mai farsi. E se degnamente ammiriamo la georgica de l’ abate De-Lille, n’ è cagione quella maggior somiglianza che la nostra lingua tiene colla romana onde nacque, di cui mantiene la maestà e la pompa. Ma le moderne lingue sono tanto disformi dalla francese, che se questa volesse conformarsi a quelle, ne perderebbe ogni decoro.

Gl’ Inglesi, tanto più liberi di noi e nel comporre i versi e nel rivoltare le frasi, avrebbero potuto arricchirsi di traduzioni fatte con esattezza e naturalezza; se non che i primi autori di quella nazione ricusarono tale fatica: e il Pope (che è pur l’ unico) ha cavato due bei poemi dall’ Iliade e dalla Odissea, ma non ritenne punto die quell’ [100] antica semplicità, nella quale sentiamo l’ efficacia e l’ arcana potenza dello stile d’ Omero.

E per verità non è verisimile che per tremila anni l’ ingegno d’ Omero sia rimasto superiore a tutti gli altri poeti. Ma nelle tradizioni, ne’ costumi, nelle opinioni, in tutte le sembianze di quel tempo omerico, ci è qualche cosa di primitivo che insaziabilmente diletta: ci è un principio del genere umano, una gioventù de’ secoli, che leggendo Omero ripete ai nostri animi quell’ affezione di che ognora ci commove il rimembrare della nostra fanciullezza: e questo interno commovimento, che si mescola colle imagini dell’ aureo secolo, fa che il più antico de’ poeti sia da noi anteposto a tutti gli altri poeti. Che se alla composizione omerica togli quella semplicità di un mondo che incomincia, ella non è più singolare, e diviene comune.

In Germania si è voluto da molti eruditi che le opere d’ Omero non fossero composte da un solo; e che l’ Iliade e l’ Odissea fossero una raccolta di canti diversi, coi quali si celebrava in Grecia il conquisto di Troia, e ’l ritorno de’ vincitori. A me pare che a questa opinione si possa facilmente contraddire; e che l’ unità di concetto della Iliade non conceda il credere quella diversità e di scrittori e di tempi. Perchè proporre unicamente di cantare lo sdegno d’ Achille? I fatti seguenti, e sopra tutto la presa di Troia ond’ ebbe fine la guerra, doveano naturalmente esser subietto a quelle rapsodie che si dicono da diversi autori composte, e doveano divenir parte di quel poema che s’ intitola da Troia. Ora lo eleggere fra tanti casi uno solo, cioè la collera di Achille, e intorno a quello ordinare tanti accidenti che un poema comprende, è disegno che una sola mente può immaginare e colorire. Nè io perciò voglio qui disputare d’ una sentenza, che a mantenerla o a combatterla vorrebbe una erudizione spaventevole: dico solamente che della principale grandezza di Omero dee tenersi partecipe il suo secolo; poichè fu pur creduto che molti poeti di quella età avessero contribuito alla Iliade. E ciò si aggiunga agli altri argomenti che c’ inducono a credere che quel poema è come uno specchio, nel quale si rappresenta il genere umano già pervenuto a un certo segno di civiltà; e quell’ opera è suggellata più dal carattere comune del secolo, che dal proprio dell’ autore.

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Lorenz Oken (Hrsg.): Isis. Brockhaus, Jena 1817, Seite 99–100. Digitale Volltext-Ausgabe bei Wikisource, URL: https://de.wikisource.org/w/index.php?title=Seite:Isis_1817_50.jpg&oldid=- (Version vom 11.10.2018)